“VOCI DAL COVID 19”
Verso una nuova prossimità?
Estratto di una conferenza di padre Luciano Sandrin, MI
tenuta il 2 luglio 2020 durante l’assemblea della Provincia Nord Italia
Stiamo ancora uscendo pian piano dall’arca dove ci siamo rifugiati per il diluvio che ci ha colpito. Ancora viviamo varie forme di angoscia1. C’è un’angoscia persecutoria, e cioè la paura del contagio, della malattia e dei suoi rischi, che mi fa vivere anche il rapporto col mio amico come un possibile nemico. C’è l’angoscia della perdita del mondo, delle nostre abitudini, della possibilità di vivere insieme come prima e viviamo una specie di lutto collettivo per un mondo che non sarà mai più come prima. I cambiamenti altereranno, poco o tanto, la nostra vita in comune e siamo presi dall’angoscia della convivenza con il virus, col rischio che i più fragili vivano l’angoscia della sopravvivenza e dell’abbandono, e i più forti un senso di impotenza e di morte professionale. Non possiamo ripartire come si riparte “a guerra finita” perché il virus resta un intruso nascosto col quale convivere. Ma intanto siamo spinti a uscire dall’arca e, come Noè, a piantare la vigna della speranza, a investire sul futuro, anche se non siamo completamente sulla terra asciutta ma in una instabile terra di mezzo2. «Quello che è certo – commenta Massimo Recalcati – è che quello che diventeremo non è già stato, non potrà essere quello che siamo già stati». E quello che sarà dipende anche da noi, da come sapremo declinare prossimità e distanza.
Artigiani della prossimità
Parlando agli operatori sanitari di varie regioni d’Italia, papa Francesco ricordava come «nel turbine di un’epidemia con effetti sconvolgenti e inaspettati, la presenza affidabile e generosa» di tanti di loro ha costituito il punto di riferimento sicuro per i malati e per i familiari che non avevano la possibilità di fare visita ai loro cari. «Questi operatori sanitari, sostenuti dalla sollecitudine dei cappellani degli Ospedali, hanno testimoniato la vicinanza di Dio a chi soffre; sono stati silenziosi artigiani della cultura della prossimità e della tenerezza»3. Testimoni di prossimità e di tenerezza anche nelle piccole cose, anche con il telefonino per collegare la persona anziana che stava per morire con il figlio o la figlia, per un e per vederli l’ultima volta: piccoli ma importanti gesti di creatività e di amore. E un mese prima, in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere, ricordava che la responsabilità morale che deve guidare la loro professionalità non si riduce alle conoscenze scientifico-tecniche, ma è costantemente illuminata dalla relazione umana e umanizzante con il malato4. Il cardinale Matteo Zuppi ci ricorda che tutte le crisi sono state nella storia generatrici di profondi cambiamenti. E pensa che anche questa non si sottrarrà a questo fine. «Per esempio questa storia del digitale, che sta cambiando il lavoro, il tempo libero, le relazioni. Cambierà, anzi sta già cambiando, anche la nostra pastorale. Come un po’ tutti hanno raccontato nella tua inchiesta, i numeri dei contatti on line, di messe o catechesi sono stati molto più alti degli abituali frequentatori delle nostre chiese. Tanta gente nuova, tanti ritorni. Questi mezzi, in sostanza, si sono rivelati un grande strumento di condivisione, che ci ha rivelato un mondo bisognoso di Parola molto più vasto dei nostri confini»5. E molti preti se ne sono accorti e stanno imparando ad usarli senza esserne usati. La distanza fisica e l’isolamento, hanno ravvivato il bisogno di comunità, di fraternità e di una prossimità, anche diversa. Abbiamo capito che «la Chiesa sta scoprendo la vita vera della gente», i problemi della vita per dare delle risposte coerenti col Vangelo, perché il Vangelo risponde alla vita vera e concreta delle persone e la cambia. Ma per fare questo «dobbiamo uscire da una logica del pensatoio, del laboratorio. Il vero laboratorio è la vita». Niente di anti-culturale nella sua provocazione.
Il cardinale è un uomo che ha una profonda cultura. Vuole solo ricordarci che la riflessione teologica nasce dall’esperienza di una fede vissuta e da questa nascono anche nuove forme pastorali. Le esperienze legate alla salute e alle varie forme del guarire (curare, prendersi cura, compatire, consolare, confortare) sono luoghi non solo di espressioni teologiche e pastorali storicamente consolidate ma anche “luoghi generativi di riflessioni teologiche e pastorali rinnovate”. Scrive Benedetto XVI nella Deus caritas est: «Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e su come Egli mi ama». L’amore per il prossimo, anche nelle varie espressioni dell’aiutare, del curare e del guarire, è una strada per incontrare Dio, per conoscerlo e poter trovare un linguaggio accreditato per parlare di Lui: «chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio»6. Non si può conoscere Dio che è amore se non partendo dall’amore verso le persone che diventano il nostro prossimo nel momento in cui ci lasciamo “prendere dalla compassione” e decidiamo di non passare oltre. Le esperienze di compassione e di prossimità sono un “luogo di una rinnovata teologia pratica: un’esperienza che ci avvicina alla conoscenza di Dio (teo-logia) “relativizzando”, e cioè ponendo in relazione a Lui, le nostre teologie e per comprendere meglio il nostro essere chiesa. Scrive Enzo Bianchi: «Nell’emergenza che stiamo ancora vivendo a causa della pandemia di coronavirus è risuonata un’urgenza, una vocazione che molti hanno sentito come universale, senza frontiere e senza possibili fraintendimenti: la com-passione, il soffrire insieme»7. In questa situazione di epidemia, spinti dalla compassione, abbiamo conosciuto la nostra capacità di prossimità (anche a distanza) e di assunzione della cura dell’altro. Si tratta ora di tenere viva questa virtù e di esercitarla anche se in forme nuove e diversificate. La compassione non si ferma al sentire. Il sentire e il capire suscitano l’agire. La compassione è una caratteristica importante di una pastorale generativa, capace di creare sempre nuove forme di prossimità, di incontro e di cura. È la compassione delle singole persone, ma anche la compassione di un’intera comunità. Nell’esperienza drammatica della pandemia da coronavirus la compassione porta un po’ di luce sulla situazione che la persona malata sta vivendo, e stimola a trovare la forma di relazione più adatta per rispondere alle domande di cura, di sollievo dal dolore e sostegno delle sue speranze. Anche nuove forme di prossimità pastorale e di compassione pastorale possono svilupparsi dall’esperienza di una prossimità vissuta, anche in questi tempi di covid-19. Ma abbiamo bisogno di ascoltare le voci che vengono da chi, in vari modi, ha vissuto queste esperienza, per un attento discernimento e una riflessione adeguata.
La prossimità dello sguardo
«Non è una parentesi! – continua a ripetere monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, passato anche lui attraverso la passione di questa malattia e guarito – Vorrei che l’epidemia finisse domani mattina e la crisi economica domani sera. Ma non sarà così. In ogni caso questo periodo di pandemia e di crisi non è una semplice parentesi». E invita all’attenzione, perché questo tempo ci parla e ci suggerisce di cambiare. «In questo isolamento – egli afferma con forza – ci siamo resi conto che le relazioni ci mancano come l’aria. Perché le relazioni sono vitali, non secondarie. Noi siamo le relazioni che costruiamo. Ciò significa riscoprire la “comunità”»8. In questo tempo di coronavirus la prossimità come segno d’amore verso gli altri e verso se stessi si esprime con il distanziamento fisico, fatto di mascherine e di camici che difendono e rendono irriconoscibili, e di divieti di contatti anche di quelli “familiari”. Questo può essere umanamente “costoso” per chi deve stare in casa e limitare i suoi contatti sociali, ma è più grande per tutti quei professionisti che scelgono di stare lontano da casa per non contagiare i propri cari e per coloro che, rientrando in famiglia, non possono abbracciare i bambini che vanno loro incontro e che, per questo, si mettono a piangere perché si sentono rifiutati. C’è un tempo per abbracciare e un tempo per rinunciare a qualsiasi “con-tatto” d’amore. E lasciar parlare gli occhi. «La compassione inizia dallo sguardo»9. E si esprime in una particolare forma di prossimità: la prossimità dello sguardo. Scrive Pierangelo Sequeri: «La protezione della mascherina rende indistinto il profilo del viso: in compenso rende più intenso il linguaggio degli occhi. L’esperienza è scolpita efficacemente nelle parole, rivolte a medici e infermieri, di una signora dimessa dall’ospedale in condizioni di guarigione: “Quando vi incontrerò di nuovo non ricorderò distintamente i vostri volti, ma riconoscerò infallibilmente i vostri occhi”»10. Il malato comunica con gli occhi l’angoscia della solitudine e l’implorazione di una prossimità. E molti, in questo periodo, hanno sperimentano il profondo dolore di non poter accompagnare la morte di una persona cara con un ultimo sguardo d’amore e di doversi affidare «allo sguardo di qualcuno, che lo porta a destinazione per noi, sopra la mascherina». Nello sguardo c’è già tutto l’amore. Bello l’incontro di Gesù col giovane narrato da Marco: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò» e gli fece la proposta di seguirlo (Mc 10,21). Ma forse era troppo ricco per lasciare che lo sguardo amante di Gesù rompesse le difese costruite attorno al suo cuore. Siamo chiamati ad avvolgere di sguardi buoni e ristoratori coloro che incontriamo e che, in particolare, sono affaticati. «Alleniamoci fin d’ora – conclude Sequeri – a guardarci tutti, di nuovo, con occhi che comunicano umanità vulnerabile e prossimità disponibile, al di sopra delle mascherine: anche se non ci siamo mai conosciuti, anche se ci sfioriamo a debita distanza. Era tanto che non lo facevamo». L’emergenza che stiamo vivendo – ci ricorda Sandro Spinsanti – evoca decisioni urgenti e cambi di strategie di intervento ma potrebbe comportare anche «un salutare richiamo a ciò che nella normalità diamo per scontato, mentre non lo è affatto»11. Bello per lui il titolo di un libro, Abbracciare con lo sguardo, che alcuni medici dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino hanno scritto, alternando voci, foto ed esperienze, perché «riesce a dare corpo alla sfida più difficile che hanno dovuto affrontare: trovare modi inediti per essere vicini ai pazienti che accanto a loro erano chiamati ad affrontare una malattia nuova e imprevedibile negli esiti di vita o di morte». Di fronte a domande dirette sulla malattia e sulla sua evoluzione erano consapevoli di non essere in grado di rispondere con parole oneste. Erano per di più privati in più della risorsa più fondamentale: la vicinanza fisica al malato. «Si presentano bardati – cuffia, calzari, camice impermeabile, maschera filtrante, visor, doppio paio di guanti – come astronauti, distanti anni luce dagli altri esseri umani, o come palombari che emergono dagli abissi. Le parole stesse stentano a passare attraverso la barriera della maschera. Per non parlare dell’esclusione della comunicazione non verbale, che nella normalità trasmette più informazioni delle parole stesse. Le tute, impenetrabili al virus, sembrano esserlo anche alle parole e soffocare i sentimenti». Nella situazione di isolamento creato dall’emergenza, lo sguardo era rimasto il canale privilegiato. Nella cura in condizioni di normalità molti malati si lamentano nei confronti dei medici che per tutta la durata della visita non staccano staccato gli occhi dallo schermo del computer, dove sono riportati i dati clinici delle analisi a cui il malato è stato preventivamente sottoposto. La medicina dello sguardo (ma anche dell’ascolto e del tatto) non è ostile al potenziamento offerto dalla tecnologia. Tutt’altro. Lo utilizza, ma con creatività, non dimenticando i bisogni fondamentali di chi accede alle cure. Uno dei medici non esita a dichiarare che la sua “vera medicina 2.0” è quella che lo ha ispirato a prestare il suo telefonino a un paziente per videochiamare un parente rimasto a casa, per un ultimo saluto, offrendo al malato la possibilità di morire un po’ meno solo. E prestarlo, disinfettato ben bene, al successivo paziente. Malgrado la distanza imposta dalla protezione di sicurezza, questi medici hanno scoperto un’intimità con i malati che nella normalità è considerata inappropriata, fino a permettersi di piangere con loro. Hanno scoperto che si può sorridere con gli occhi e abbracciare con lo sguardo. L’abbracciare con lo sguardo acquista un significato ulteriore. «Oltre a caricare il rapporto con il malato dell’intensità che nasce dal praticare la medicina con i cinque sensi – anche se è l’occhio che assume il compito di rappresentare gli altri sensi impossibilitati a partecipare – l’abbraccio attraverso lo sguardo rimanda, in senso figurato, alla capacità di contenere in un unico atto visivo tutti gli aspetti di una questione», da un punto di vista più alto, integrando tutti gli aspetti dell’arte della cura. È una “ri-scoperta” da non dimenticare troppo in fretta. Lo psichiatra Tonino Cantelmi mette in guardia dal rischio di usare come sinonimi distanziamento fisico e distanziamento sociale. «Eppure – egli afferma – se vogliamo cogliere l’anima dell’altro, non ci serve “toccarlo”, ma piuttosto guardarlo negli occhi. Lo sguardo è il vero contrasto al distanziamento “sociale”. Sarebbe meglio chiamarlo distanziamento di “sicurezza”. Forse, in molti casi, l’ultima immagine negli occhi delle vittime COVID-19 è quella dello sguardo di un infermiere o di un medico»12. Ed è lo sguardo che può mitigare il senso di solitudine. Molti osservatori sottolineano l’incremento della “solitudine percepita” della (lonelines): un fattore significativo di rischio per la salute mentale. E questo lo porta a pensare che la vera ripartenza è nella ricostruzione delle relazioni interpersonali e nella scoperta di un senso in ciò che viviamo, da ritrovare o da dare, che sostenga il cammino della speranza. Una buona spiritualità e una buona religiosità, agita attraverso forme concrete, possono veramente aiutare. Andrà tutto bene se tutti ci impegniamo che vada meglio. Solo così ne usciremo migliori.
Conclusione
Conosciamo quel breve racconto di Arthur Schopenhauer chiamato il dilemma del porcospino. Un gruppo di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si stringono vicini per proteggersi col calore reciproco. Ben presto, però, sentono il dolore delle spine reciproche e si allontanarono l’uno dall’altro. Quando il bisogno di scaldarsi li porta di nuovo ad avvicinarsi si ripete il dolore di prima. Tutto questo dura finché non trovano una giusta distanza reciproca, che dà loro il vantaggio del calore senza farsi male. È un’immagine che ben rappresenta la complessità dei rapporti umani, e la continua ricerca di una buona vicinanza e di una giusta distanza da tenere con gli altri. Nelle nostre relazioni sociali abbiamo bisogno di legami affettivi caldi senza però perdere la nostra individualità. Trovare il giusto equilibrio non è facile e non è possibile fissarlo una volta per sempre. Le spine del porcospino sono tutto ciò che, in situazioni di eccessiva vicinanza affettiva tra due soggetti che si “con-fondono”, possono causare danni e ferite fino a incrinare o rompere il rapporto. Oggi viviamo una particolare esperienza nella quale la prossimità fisica può essere fonte di contagio, e può quindi far male. A questa immagine, che ci ricorda il bisogno di sani confini e della giusta distanza nei rapporti tra noi, si rifà anche la psicologa Anna Olivero Ferraris, nel parlare della famiglia. Sono molte le famiglia nelle quali i rapporti sono limitati da un “andirivieni” dentro fuori. E nel momento in cui sono costrette a una vicinanza più stretta e continua può venir fuori il meglio o il peggio13. Questo vale anche per le comunità religiose. Possiamo voler bene all’altro avvicinandoci e volergli male distanziandoci. Ma può essere vero anche il contrario. Ci sono prossimità che curano e prossimità che feriscono, distanziamenti che feriscono e distanziamenti che ci impediscono di farci del male. Anche l’esperienza del covid-19 può insegnare qualcosa.
Note
n.1: Cfr. M. RECALCATI, La curva dell’angoscia, La Repubblica, 12.4.2020 (rep.repubblicai.it).
n.2: Cfr. Gen 9,20.
n.3: PAPA FRANCESCO, Udienza ai Medici, agli Infermieri e agli Operatori Sanitari dalla Lombardia, 20.06.2020 (il corsivo è mio).
n.4: PAPA FRANCESCO, Messaggio in occasione della Giornata Internazionale dell’Infermiere, 12.05.2020.
n.5: Cfr. M. ZUPPI, Con la mascherina non ci si vede allo specchio, intervista di R. Cetera in “L’Osservatore Romano” – 16.6.2020 – www.osservatoreromano.va.
n.6: BENEDETTO XVI, Deus caritas est. Lettera enciclica sull’amore cristiano, 25.12.2005, nn.18;16.
n.7: Cfr. E. BIANCHI, La virtù della compassione nell’epidemia, in “Jesus”, Maggio 2020, scaricato da monasteropdibose.it. Sul tema della compassione cfr. L. SANDRIN, Un cuore attento. Tra misericordia e compassione, Paoline, Milano 2016.
n.8: Cfr. Vescovo Derio in una lettera aperta: “sogno comunità aperte, umili, cariche di speranza”, in www.vitadiocesanapinerolese.it – 19.5.2020.
n.9: L. SANDRIN, Accanto alle persone ammalate, in A. LAMERI – L. SANDRIN, Ammalarsi, Cittadelle Editrice, Assisi 2020, p. 15.
n.10: P. SEQUERI, Lo sguardo oltre la mascherina. Alleniamoci tutti a dare più umanità, in “Avvenire.it”, 4.4.2020.
n.11: S. SPINSANTI, La cura che passa attraverso gli occhi, in www.sandronspinsanti.eu.
n.12: T. CANTELMI, È lo sguardo che abbatte il “distanziamento sociale”, intervista in “it.aleteia.org”.
n.13: Cfr. A. OLIVERIO FERRARIS, Famiglia, Bollati Boringhieri, Torino 2020, pp. 48-52.