San Camillo ha ricevuto da Dio il carisma di testimoniare al mondo l’amore sempre presente di Cristo per gli ammalati e i sofferenti. Ai tre Voti comuni a tutte le Congregazioni Religiose di Povertà – Castità – Obbedienza, volle il quarto di essere sempre presente “etiam pestis incesserit”, oggi tradotto in “sempre, anche con rischio della vita”. I religiosi Camilliani Martiri della Carità in questi primi quattro secoli di vita sono circa 300, e di essi si hanno i nomi di soli 252, molti sono stati quelli che hanno sacrificato la propria vita e sono Anonimi per la drammaticità dei momenti in cui avvennero i fatti, che certamente non davano spazio a relazioni cronachistiche. A Palermo scoppiava la peste e vi morivano martiri di carità nove Religiosi (su 19 che erano), tra i quali il Padre Pasquale «che ad una voce molti Religiosi e secolari dicono santo, per aver con tanto ardore di carità seguito sì appresso il Fondatore da dover ritenere ch’egli sia salito con Lui a godere in cielo la beata visione». Il buon Pastore era già stato nel contagio di Pozzuoli (1589) dove, se gli sfuggì allora la palma, non perdette la speranza e il desiderio di conseguirla più tardi. L’anno seguente (1625) a Genova, a bordo della flotta spagnola, trovava la morte il Padre Francesco Pelliccioni nell’assistere con altri suoi Confratelli la ciurma colpita da peste. Nel 1630 il morbo asiatico assediava molte città d’Italia. Il Manzoni ci descrive gli orrori della peste di Milano, nella quale presero gran parte i sessanta «Ministri degli Infermi» che dimoravano in quella città. Oltre l’assistenza che prestavano ininterrottamente nell’Ospedale Grande, si occuparono indefessamente nel Lazzaretto di Porta Orientale, celebrato dal Manzoni. A Milano soltanto perirono, in quella circostanza, 17 Figli di Camillo. Tra loro era il buon Fratello Olimpo Nofri, tanto caro al Fondatore, che lo disse «ottimo nel servizio dei poveri». L’eroico Fratello dopo d’aver immolate le sue forze nell’assistenza degli appestati, scorgendosi egli stesso affetto dal morbo, perché i Confratelli, per prendersi cura di lui, non fossero distolti dal servire gli altri, si trascinò, dopo ricevuti i sacramenti, fori di Porta Ludovica al cimitero, per attendervi la morte. Mantova, stretta d’assedio fin dall’ottobre del precedente anno (1629), aveva trovato nei «Ministri degli Infermi» gli angeli del conforto e della difesa contro i Lanzichenecchi «selvaggi, mercenari, rapaci, che saccheggiano spietatamente la città … I Religiosi erano riusciti ad imporsi a quei barbari con la forza della virtù» e ottenere che si cessasse il sacco. A quella infernale invasione sottentrò la peste. I «Figli di Camillo» «furono addetti, proprio e per primi, agli ospedali ed al Lazzaretto di S. Giorgio… Essi furono in mezzo a tutta la moria… accorrendo dappertutto a porgere conforto ai poveri moribondi… e dopo di essersi logorati del popolo afflitto, ascesero, morendo, al cielo come vittime della carità, ostie espiatorie, olocausti, a rendere propizia la misericordia divina». Quindici, e perciò tutti, o poco meno, passarono a ricever il premio del loro sacrificio. Tra essi è il P. Antonio Buccelli, ch’era stato tra i fortunati che assisterono alla morte di Camillo.
Anche a Bologna infierì in quel 1630 la peste, e vi colse, pare, trenta mila vittime. «I Padri del Ben Morire», come li denominava la cittadinanza, entrarono nel Lazzaretto dell’Annunziata e di S. Giuseppe, fuori Porta Saragozza, per aiutare i colpiti dal morbo, per disporli a ben morire e morirvi essi stessi in numero di sette. A Borgonuovo (Piacenza) perivano, tra gli appestati, altri quattro «Ministri degli Infermi», tra i quali il p. Marapodio, che sopravvive nel ricordo del suo amore ardentissimo a Gesù Eucarestia e ai poveri. Dopo aver pietosamente curati fino all’estremo di sue forze gli appesati, colto egli stesso dal male, si trascinò ai piedi del Tabernacolo per esalarvi, nell’adorazione, l’ultimo respiro. A Mondovì in questo stesso anno colsero la palma del martirio della carità sette altri Religiosi: tra essi i Padri Pizzorno, Morelli e Lavagna, particolarmente affezionati a Camillo. A Firenze e a Lucca la strage fu meno sensibile, a tale tuttavia da chiedere all’Ordine altre quattro gloriose vittime, tra le quale due particolarmente note: il p. Bisogni, a Firenze, e il p. Domenico De Martino, a Lucca, questo ultimo vissuto lungamente accanto al Fondatore. A Roma, quasi ogni giorno di quell’anno, giungevano notizie del generoso apostolato e della gloriosa morte dei vari religiosi, cosicchè il Superiori Maggiori non poterono trattenersi dal deliberare di scendere ancor essi in campo, specialmente a Bologna. Il Padre Generale Pieri, i Consultori Padre Novati, Zazio e Prandi si disposero infatti ad accorervi. Innanzi di partire si portarono alla presenza del Cardinale Ginnasi, Protettore, per congedarsi, e lo videro commoversi e piangere dicendo: «Grazie a Voi, o Sommo Iddio, che mi fate vedere uomini Servi Vostri, sprezzatori di questa vita, per servirvi anche fra gli incomodi e pericoli nei vostri poveri, solo col motivo della carità santa». Due contrassero la peste ed uno vi morì; gli altri furono risparmiati per nuove imprese, e per successive fatiche. Dal 1630 furono stabiliti gli «spurghi» o uffici di disinfezione, soprattutto per le merci e la corrispondenza, che giungeva dai luoghi infetti. I Figli di Camillo accettarono per sé un impegno tanto delicato per responsabilità e di tanta fatica: con «suffumigi di zolfo, bitume, miscele di sostanza resinose, e soprattutto con la fiamma diretta» sottoponevano alla disinfezione quanto era ritenuto infetto. In simile travagli durarono i «Ministri degli Infermi» un secolo e mezzo, e n’ebbero in premio un discreto numero di vittime. Primo il p. Zazio, il più esperimentato in quel lavoro, salutato per ciò il salvatore di Imola per averla prevenuta e difesa dall’invasione del morbo. In quegli «spurghi» perdette egli la vista e si abbreviò la vita. Ma la peste, che per poco non spense (non lo poteva del resto) la Religiosa famiglia del De Lellis, fu quella del 1656-1657. Essa infierì specialmente nel mezzogiorno d’Italia, dove trovava pronto a sostenerla e ad affrontarla il grosso dell’esercito crocesignato di S. Camillo. Napoli parve la citta più duramente provata. «Senza verun risparmio, i Ministri degli Infermi s’ingolfarono tra i pericoli, servendo tutti, negli ospedali e nel Lazzaretto». E fu cosa di gran commozione quando il p. Provinciale Prospero Voltabio , cresciuto alla scuola di Camillo, raccogliendo tutti i Religiosi, e chiedendo chi avesse accettato di entrare nel Lazzaretto, «tutti prontamente, prostratisi in terra, pregarono d’essere assegnati a quel servizio»
Il Signore accettava il sacrificio di tutti. Erano essi ripartiti in quattro Case, una delle quali, quella del noviziato, la più fiorente dell’Ordine. Prima o poi tutti scesero sul campo di battaglia per coronarsi di vittoria, col sacrificio supremo. «Di soli Religiosi Sacerdoti, novantasei furono falciati dalla morte» sopra un centinaio ch’essi erano prima del contagio. I quattro superstiti, del resto, soffersero anch0essi la pesti. Nel tramestio rovinoso, memorie e documenti andarono perduti e delle gloriose vittimi ci rimane solo il nome di 27 Padri, tra i quali Prospero Voltabio, Giovanni Battista Crescenzi, Luifi Franco, Troiano Positani, che abbiamo ammirati vicini al Fondatore e formati alla sua scuola. Così dei fratelli soltanto di tredici ci è rimasto il nome, quello di tutti gli altri è segnato solo sul libro d’oro della carità, in cielo. La peste si affacciò sinistramente a Gaeta, a Chieti, a Bucchianico, trovando ovunque in armi la «Croce Rossa di S. Camillo». Anche a Roma sia per prevenire il contagio negli «spurghi», come per curarne i colpiti nell’isola-lazzaretto di S. Bartolomeo, qualche «Ministro degli Infermi» vi lasciò la vita, anzi lo stesso Generale p. Antonio Albiti, che, degno comandante della sua pacifica armata, faceva ad essa, morendo, l’ultima raccomandazione di perseverare «nell’intiero servizio di Dio per essere sempre ministri e servi fedeli dei poveri infermi». A Viterbo altre due vittime s’unirono al numero già alto delle precedenti: ma, a Genova soprattutto, i «Ministri degli Infermi» raggiunsero un trionfo di poco inferiore a quello di Napoli. Si ritiene che la peste vi abbia spenti 64 mila cittadini; certo i cinquanta Figli di San Camillo che si presentarono alla loro assistenza «tutti furono colpiti dal morbo, e trentasette dalla morte». La vittima più lagrimata fu il Fratello Giacomo Giacopetti, che coronava in modo tanto degno una vita di stenti e di immolazione nell’apostolato della carità infermiera. Altro campo di lavoro e di meriti per il cielo fu Torino nell’epidemia del 1679. Dopo qualche anno di tregua l’esercito della «Croce Rossa di S. Camillo» appariva nuovamente in campo per la peste del 1709 a Genova: così nel 1714 e 1732 a Roma, lasciando in questa e in quella città qualche vittima ancora. Ma il contagio più sinistramente celebre, nel secolo XVIII, fu la peste di Messina (1743). I ventisei religiosi, che dimoravano, si offersero tutto con grande generosità al sacrificio. I giovani novizi, edificati e stimolati dall’esempio dei più anziani, chiesero ancora essi di essere ammessi subito alla professione per scendere in campo con la morte. Perché ciò non fu loro concesso, di proprio arbitrio si offersero a Dio con voto di durare nel servizio degli appestati sino al sacrificio di sé. Ai genitori, che erano venuto a richiederli alla porta del convento, questi teneri fiori di martiri rispondevano: «Poiché il Signore ci ha chiamati a una religione dedita al servizio degli infermi, anche appestati, stimiamo nostro dovere morir nella medesima e morir nell’impegno di tale esercizio». Il cielo, infatti, benediceva e accettava il loro sacrificio, che consumarono tutti generosamente sull’altare della carità. Alla peste succedeva nel secolo XIX il colera. Dal 1835 al 1911 a più riprese e nei diversi centri, il morbo si trovò sempre a contatto con la Croce Rossa di S. Camillo, che si coronò di continui trionfi, registrando nuove vittime. Così nelle guerre, che funestarono l’Europa dal 1595 fino all’ultima 1914-1918, i «Ministri degli Infermi» apparvero qua e là sui campi di battaglia, sotto l’egida della Croce imporporata del Sangue di Cristo, per mitigare le funeste conseguenze dell’odio armato e per ricordare agli uomini che tutti, per merito di quel Signore, siamo fratelli. Né verrà meno, ai Figli di San Camillo, la messe, nel loro campo della carità infermiera, che anzi sovrabbonda sempre, ancorché una falange di nuovi operai evangelici sia entrata a dividerne le fatiche e il raccolto. I «Ministri degli Infermi» ritengono – come rivolte a sé – le belle parole di Cristo: «Rallegratevi, o piccolo gregge, perché a te si è compiaciuto di dare il Padre mio il suo stesso regno!…» il Regno della carità! Negli Ospedali, nei Lazzaretti, nei Senatori e nei Lebbrosari pure, i Figli di San Camillo, conforme la promessa del Padre loro, hanno trovate le loro Indie e il loro Giappone, non solo per un apostolato di propagazione evangelica, ma per cogliervi ancora la palma di un lento, meno clamoroso, ma forse, innanzi a Dio, altrettanto sublime martirio. La peste e il colera, grazie Dio, non fanno più le funeste parate di morte d’altri tempi; né gli ospedali son più i sudici alberghi graveolenti della miseria: tuttavia oltre quella morale, assai più grave, che vi dominca c’è in essi anche fisicamente una perpetua e fatale minaccia di nuove e diffuse forme di peste e di contagio, tanto più mefitiche in quanto non sono effetto di conseguenza di sola corruzione di corpi, ma troppo spesso, purtroppo, anche di anime. E fatta pure eccezione di queste, «la tubercolosi» tiene oggi un primato indiscusso su tutte le forme precedenti di peste, di colera, di vaiolo, da segnare essa sola ogni anno i due terzi della mortalità. I Ministri degli Infermi negli ospedali e nei sanatori affidati alle loro cure, sono sempre nel pieno esercizio del loro quarto voto solenne di assistenza agli appestati: che se, grazie a Dio, possono promettersi, per i successivi felici ritrovai della scienza medica, una più facile immunità, questa oltre il prolungare le sofferenze del loro apostolato non è sempre tale, che non colga ancora tra i generosi, che vi si sacrificano con più zelo, una qualche vittima di carità. Del resto si compiaccia il cielo di concedere molte di tali vittime all’Ordine dei Ministri degli Infermi! Perché, oltre a formar esse la sua gloria più bella, sono ancora le sorgenti che nutrono le nuove polle, come un tempo il sangue dei martiri era seme di cristiani. È proprio per questo spirito di eroica carità a cui s’inspira, con il quarto voto solenne di assistenza agli infermi, anche ammorbati, che il Pontefice Leone XIII diceva d’esser preso di meraviglia e di ammirazione per l’Ordine dei Ministri degli Infermi.