ALL’OMBRA DEL CORONAVIRUS: INTERROGATIVI E ATTEGGIAMENTI DELLA FEDE CRISTIANA
Giuseppe Cinà, M.I.
La lieta notizia che è il Vangelo, può essere sintetizzata nella parola del Signore: “Sono venuto perché gli uomini abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Il Dio “amante della vita” (Sap 11,26) nell’atto creativo aveva dispiegato la gioia dell’esistenza al di fuori della sua vita trinitaria. Ma il male, nelle sue molteplici forme, aveva schiavizzato l’esistenza delle creature, introducendo un elemento di distorsione e di morte nell’opera di Dio. Per cui l’azione mediatrice di Gesù Cristo ha assunto i caratteri della “redenzione”. L’espressione “Dio salva l’uomo” indica l’azione di Dio con la quale egli porta avanti l’opera creatrice in maniera che l’uomo raggiunga il suo compimento, ossia il perfezionamento dell’intera sua identità personale. Affinché dunque l’uomo, immagine del suo Creatore, possa tornare a vivere in pienezza, deve essere redento non solo dal peccato, ma anche dalla morte, “quasi sintesi dell’opera distruttiva” della sofferenza (SD 15). Peccato e morte sono infatti le “radici trascendentali del male” (SD 14).
Vista in questa prospettiva, la condizione di sofferenza dell’uomo offre l’opportunità di pensare Dio e la sua opera salvifica a partire dalle situazioni di irredenzione dell’umanità e del cosmo.
- I MOLTI VOLTI DEL DOLORE UMANO
L’uomo attua la sua esistenza attraversando e vivendo svariate situazioni ed esperienze. Alcune di esse sono positive e belle e costituiscono quell’aspetto della vita che potremmo chiamare diurno e luminoso, in contrapposizione alla dimensione opposta, notturna e avvilente, segnata da situazioni oscure e dolorose. Si vorrebbero certo evitare di tali situazioni, ma raramente è concesso. Sono esse che s’impongono alla vita, rendendola faticosa e dolente.
Assumono, queste esperienze, i volti più svariati e differenti: c’è il male della natura che si esprime in catastrofi ed epidemie, morti immature e tribolazioni devastanti, prive di senso. C’è poi il male responsabile, dove l’uomo è vittima e artefice o carnefice, da quello che accade su vasta scala, quale i genocidi e le torture, l’ingiusta ripartizione dei beni, l’oppressione sistematica e programmata, a quello che è il male quotidiano, fatto di aggressività e di gelosie, di meschinerie e di individualismi esasperati del “ciascun per sé”. Opportunamente il Concilio Vaticano II ha ricordato che è dallo squilibrio “interno all’uomo” che nascono gli altri conflitti, sì che l’uomo necessiti innanzitutto d’una riconciliazione con se stesso (GS 10). Né va trascurato il malessere di carattere psichico o organico tanto diffuso nel nostro tempo, che si esprime sotto forma di depressione e di noia, e che spesso va a sfociare nella droga, nell’alcoolismo, nel suicidio.
Dove collocare l’ampio e variegato corteo delle malattie, le patologie che affliggono la persona umana e la costringono a ricoveri penosi e interminabili nei grandi o piccoli ospedali delle nostre città? Chi frequenta questi luoghi sa bene come essi diano l’impressione d’essere una sorte di concentrati o sintesi viventi del patire umano, perché chi soffre nella carne ha dolori ancora più cupi e devastanti nello spirito.
E chi sarà mai in grado di dare una risposta ai persistenti interrogativi che assalgono il cuore dell’uomo quando è sorpreso da simili situazioni?
I gravi interrogativi del dolore
L’umanità ha sempre cercato di darsi un “perché” nelle sue tribolazioni, ora invocando la fatalità e il destino, ora cercando dei responsabili e puntando il dito: “dàgli agli untori!”, oppure evadendo la realtà, ritenendola illusione, o ancora, attribuendo la colpa agli spiriti del male, al diavolo, e anche accusando Dio o, all’opposto, tentando di scusarlo e di giustificarlo, se non decretandone l’inesistenza! Ha anche provato, l’umanità, a rassegnarvisi stoicamente, magari in maniera eroica o annegando nel pietismo, oppure, più semplicemente, cercando di non pensarci: ma…, è possibile non pensarci?
Pare che l’uomo di oggi, delle nostre società e culture occidentali, quando si trova dinanzi a dolori ineludibili e immani, quando è colpito da sventure che mettono in discussione il senso ultimo e definitivo della vita, non avverta più l’utilità della domanda di senso. Ha infatti la sensazione che in tanto vale la pena soffermarsi su un interrogativo in quanto vi si intuisce la possibilità d’una risposta risolutiva, altrimenti è… perdita di senso e non solo di tempo: “A che serve se il male rimane?…”
Eppure la domanda persiste, è insopprimibile. Perché non esiste la sofferenza, bensì uomini e donne che patiscono. In maniera singolare e irripetibile: “Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera” (Quasimodo). Essi si pongono la domanda, o meglio, è la domanda che s’impone a loro. Perché ogni uomo conosce un suo patire. Nessuno sfugge al dolore. E’ una sorte di seconda natura. In effetti, la memoria d’un uomo è la memoria del suo soffrire, della sua passione. Si può dedurre che la sofferenza è un dato fondamentale della condizione umana, qualcosa di generico e neutrale, che riguarda tutti – come lucidamente aveva visto Ben Sira (Sir 40,1-11).
Le due facce dell’esistenza: dimensione luminosa e dimensione notturna
La vita del resto è fatta di luci e di ombre. Di chiaroscuri, dunque, dove il buio è percepibile perché c’era una luminosità. In tanto si conosce il dolore, perché si è stati nella gioia. Quanto più un uomo ha apprezzato la gioiosità dell’esistenza tanto più sarà offeso dalla laidezza del male.
Da tal punto di vista, la vita dell’uomo può esser descritta leggendola sui due versanti: sull’uno vi appare come un essere che è “proiettato nell’esistenza”, perché colmo del desiderio di vita che intende attuare in un progetto significativo. Per questo s’adopra e v’impegna le migliori energie, attraverso l’esercizio d’un lavoro, d’una professione utile a sé e alla società. E per lo stesso motivo si decide per una determinata forma di vita mettendo su famiglia, oppure dedicando tutte le energie della mente e del cuore ad altra causa che ritiene valida e degna di assorbire il meglio di sé.
Ma che cosa accade nello spazio interiore di questa persona se una grave sciagura, una diagnosi infausta, o qual’altra sventura si abbattono su di lui? La sensazione più acuta che si prova in simili circostanze, è il fallimento dell’esistenza, la rimessa in discussione di tutto se stessi, quasi un muro che, improvviso, si eriga contro lo slancio nella vita. Se la situazione persiste e si aggrava, quella sensazione si tramuta in un’esperienza di derelizione, di un sentirsi abbandonato o tradito dalla vita, un essere “gettato via” dall’esistenza. Il sentimento dell’esser “proiettato nell’esistenza” della prima prospettiva, è ora diventata l’esperienza del sentirsi “rigettato dalla vita”.
Non è più opportuno tacere e ascoltare?
Chi oserà, a questo punto, tentare ancora una risposta, presumere d’aprire un altro itinerario? Forse, piuttosto che cercare una soluzione, sarebbe meglio tacere, addentrarsi nel silenzio e mettersi in ascolto: in ascolto di chi subisce il male, di coloro che, per compassione e solidarietà, si accostano alla persona dolente, di quelli che lottano su tutti i fronti contro tutte le forme del male, di Colui che, innocente, ha scelto di vivere la nostra umanità fino a quanto in essa vi è di più laido e inumano: la morte infamante della croce. Che cosa ne dice Lui, di questo nostro quotidiano patire?
Sembrerà forse singolare e strano, eppure i vangeli non attribuiscono a Gesù nessuna formula o discorso di “spiegazione” del dolore, delle nostre malattie, dei nostri mali. Né vengono riportate parole o proposte di atteggiamenti di “rassegnazione” di fronte a queste esperienze. Anzi, si adoperò con la parola e le opere perché fossero vinte le cause del male. Neppure cercò mai, per se stesso, la sofferenza. Quando tuttavia non poté evitarla perché era sulla strada della fedeltà alla volontà salvifica del Padre, vi si sottomise, la “prese su di sé” (Mt 8,17), e subito la sofferenza acquistò una qualifica di senso, perdette la sua inutilità e divenne via d’accesso alla pienezza di vita non solo per Lui, ma per noi tutti. Ora i credenti in Cristo “sanno” – della conoscenza della fede – che anche il loro patire ha un significato, un valore salvifico non certo in forza del patire in se stesso, bensì in ragione dell’atteggiamento di amore e di solidarietà con cui Cristo l’ha vissuto. Le parole d’istituzione dell’Eucarestia ben manifestano quella disposizione del cuore: “Questo è il mio corpo dato per voi;…il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per tutti… “ (Mt 26,28).
Da dove viene questa energia trasformante, che ha introdotto in una situazione di per sé negativa e negatrice di senso, un seme che la rende esperienza di valore e di promozione di vita?
Mettersi “in ascolto”…
Lo scopre, e ne fa esperienza, solo chi tace e si pone in ascolto, attento a cogliere ogni sussurro, ogni parola e gemito che discendono dal Crocifisso. I discepoli di Cristo hanno sempre fatto fatica a seguire il loro Maestro quando egli ha parlato del senso che ha la sofferenza nel disegno del Padre. Chi non ricorda l’icona di Emmaus, dove il misterioso viandante si affianca ai due giovani delusi, li rianima e li rincuora “spiegando loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”, e cioè che “bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria” (Lc 24, 26-27)? Fu dunque necessario che i discepoli tornassero di nuovo a scrutare le Scritture, ma ponendosi in ascolto di Colui che aveva patito.
Quale “Vangelo della sofferenza” (SD VI) avrà loro narrato il viandante sconosciuto perché prima “ardesse” loro il cuore nel petto, e poi si “aprissero” finalmente i loro occhi, e “riconoscessero” il loro Maestro (Lc 24, 32.31), ritrovando la fiducia nella vita e la gioia della condivisione nella comunità apostolica?
La storia della salvezza ha il suo inizio effettivo nella decisione da parte di Dio d’intervenire a favore del suo popolo che vede oppresso. Giunge, attraverso una marcia di progressivo avvicinamento di Dio stesso, all’incarnazione del Figlio. Questi si accosta all’umanità peccatrice e sofferente per sanare ogni sorta di malattia e d’infermità prendendo su di sé dolore e peccato. Più che d’un “avvicinarsi” di Dio a noi, è forse da dire che si tratta d’un “entrare” di Dio, attraverso il Figlio e lo Spirito Santo, dentro di noi, nella nostra concreta condizione di finitudine e di peccato.
Ci si dovrà chiedere quale sia il motivo che ha mosso Dio a intraprendere una tale “discesa” nella nostra condizione creaturale, fino a soffrire insieme con noi, come uno di noi. E’ la domanda centrale della fede cristiana: “perché Dio si fa uomo?” Tutta la Bibbia narra questa storia della venuta di Dio fra noi perché noi potessimo salire fino a lui e prender parte alla sua vita divina. Gesù esprimerà l’obiettivo della sua missione come compimento dell’anno giubilare, essendo egli – il Messia – stato consacrato dallo Spirito e “mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a proclamare l’anno di misericordia del Signore” (Lc 4,1-2, in: TMD 11).
Due testi dell’Antico Testamento sono particolarmente significativi per cogliere questo “descensus Dei”. Il momento risolutivo del dramma, tuttavia, si avrà nella venuta del Figlio di Dio “in mezzo a noi”.
- DUE ESEMPI: LIBERAZIONE DALLA SCHIAVITÙ, LIBERAZIONE DALLA MALATTIA
Il Dio dell’Esodo: un Dio “per noi”
Proiettato sullo scenario arido, maestoso e suggestivo del monte Oreb, il libro dell’Esodo narra di Mosè che sente risuonare la voce di Yahvè: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti: conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…” (Es 3,7-8). Dio dunque era attento alla misera condizione di Israele, anzi “conosceva” le sue sofferenze. Ossia non solo Dio conosce gli uomini, ma conosce le loro sofferenze e vuole alleviarle. Per questo, aggiunge il testo, Dio “è sceso” dalla sua solitudine inaccessibile per avvicinarsi in qualche modo alla condizione nostra, al nostro costume di vivere. Egli entra nella nostra vita e non rimane estraneo alla nostra pena. E’ già cominciata, come affermano i Padri della Chiesa, l’unione della nostra umanità con il Verbo.
All’interno di questo incontro tra Dio e l’uomo, Dio rivela il suo nome, rinunzia alla sua inaccessibilità e si dona al suo popolo: ora Israele conosce il suo Dio, sa chi è Yhavè. Dio diviene “il suo” Dio, il Dio d’Israele, la sua eredità e il suo bene. Dio ha mantenuto fede alla promessa d’alleanza fatta ad Abramo. Ora Israele può davvero contare su Dio e con Lui tutto sperare ed osare.
E’ opportuno osservare che la rivelazione del nome di Dio avviene in un contesto di tribolazione e di pena: Israele è in condizione di schiavitù e soffre gravemente, si lamenta e grida la sua desolazione. Dio ha udito quel grido e discende deciso a liberare il suo popolo e rivela la sua identità, il suo nome. La situazione di sofferenza è divenuta luogo di rivelazione della verità di Dio, di chi è Dio, ed è manifestazione di un Dio che è “per noi”. La rivelazione del suo nome, infatti “è rivelazione della sua realtà divina: attraverso la parola il Signore comunica se stesso e promette la sua fedeltà al popolo della promessa. Il Dio d’Israele è il Dio che è e sarà sempre vicino e solidale ai suoi, pronto a intervenire a loro favore. Il suo nome è promessa della sua presenza efficace e fedele, manifestazione del suo mistero d’amore: ‘Io sono Colui che è per voi’. Colui che prende l’iniziativa, rivelandosi attraverso la parola, è Colui che in ogni tempo prenderà l’iniziativa dell’alleanza”.
E tuttavia Dio non agisce da solo. Immediatamente chiama un uomo – Mosè – e lo fa suo collaboratore: “Ora va’! Io ti mando dal Faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo!”: Dio che vuole la salvezza del suo popolo, si serve della mediazione umana. Vorrà sempre aver bisogno del coinvolgimento degli uomini per portare avanti il suo disegno di creazione e di salvezza.
Le origini della fede d’Israele sono dunque nella memoria di questo evento storico della liberazione dalla condizione di schiavitù in Egitto. Ne è conferma la bella professione di fede contenuta nel Deuteronomio: ”Quando in avvenire tuo figlio ti domanderà: Che significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha dato? Tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi del Faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente…”. Qui è espresso chiaramente il convincimento d’Israele che “la liberazione del passato è vissuta come certezza sempre attuale (eravamo non erano) della compassione dello stesso Dio. Yhwh si è assunto l’obbligo di vendicare e di riscattare i suoi, facendosi go’el (da ga’al, riscattare) di Israele, colui che lo libera, lo riscatta e lo redime”.
I frequenti lamenti dei salmisti che gridano la precarietà della condizione e invocano l’aiuto di Dio, sono anch’essi sostenuti dalla certezza che come il Signore è intervenuto a liberare i “padri” nel tempo antico dalla penosa condizione dell’Egitto, così interverrà anche oggi ad aiutare il fedele che con fiducia l’invoca. Particolarmente toccanti sono le espressioni dei salmi attribuiti a malati, come ad esempio: “In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati; a te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi” (Sl 22,5-6). Si vedano anche i salmi 6, 38, 39, 88, 102, 143.
D’altra parte, la riflessione biblica è condotta su di una “storia di salvezza”, dunque su di una storia di emancipazione, liberazione, salvezza da situazioni d’indigenza, di povertà, di schiavitù, di malattie, di miseria, di peccato. Una storia comunque che avverrà all’insegna di una stretta collaborazione tra Dio e l’uomo.
Il Dio di Giobbe: un Dio “con noi”
Decisamente innovativo è il libro di Giobbe, nel senso che rompe con i classici schemi interpretativi tradizionali che generalmente vedeva nella malattia e nella tribolazione l’intervento punitivo di Dio per una colpa. Con Giobbe si apre una nuova prospettiva. E’ un testo che lo si direbbe contemporaneo ad ogni generazione, tanto è il vigore e l’attualità che si sprigiona da quella narrazione. Vi si narra di “un uomo chiamato Giobbe, del paese di Us”, timorato di Dio e nemico del male, benestante e felice. Nel giro di pochi giorni perde tutto: il ricco patrimonio, la famiglia, la salute, gli amici. Come reagisce?
E’ noto come il testo attuale di questo libro attribuisca a Giobbe due differenti atteggiamenti: la parte “narrativa” del libro, che fa quasi da cornice al testo comprendendo il “proemio” (capp. 1-2) e l’ “epilogo” (42, 7-17), ci presenta Giobbe paziente e pio, che “in tutto questo – ossia, riguardo a tutte le sventure che l’avevano colpito – non peccò e non attribuì a Dio nulla di ingiusto” (1,22). Rimase integro nella sua fede, non ritenendo che vi fosse una contraddizione nel comportamento di Dio: un simile contrasto, a suo giudizio, va ritenuto possibile all’interno della condizione umana: “Nudo uscii dal grembo di mia madre e nudo vi tornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore!” (1,21). La figura di Giobbe in tutto questo dramma ne esce glorificata. Di fronte alle gravi sventure, la reazione di Giobbe è colma di serenità: egli sa che dinanzi alle tribolazioni l’uomo deve mantenere la sua fedeltà a Dio, sottomettendosi umilmente, nella certezza che Dio rimane giusto e sapiente. Giobbe ha ben integrato dolore e sventura nella sua vita di uomo e di credente.
Ma accanto a questo volto di Giobbe “paziente e pio”, il libro ne dipinge un altro che appare contrastante, se non addirittura contraddittorio: la parte centrale del testo, infatti, che assume la forma letteraria del dialogo e del dramma, presenta un Giobbe contestatore e ribelle, che rifiuta ogni giustificazione teologica del suo male. Accusando, interpella infine Dio stesso perché valuti la sua situazione.
Già questo accostamento dei due volti di Giobbe, contiene un ammaestramento in quanto richiama un dato dell’esperienza, e cioè che c’è chi sopporta con pazienza e dignità una sventura e chi invece vi si ribella. Più profondamente, il testo sacro vuol anche dire che spesso, quei due atteggiamenti coabitano nella stessa persona: a volte riusciamo a integrare serenamente una sofferenza, una malattia, un fallimento, un lutto; altre volte vi opponiamo resistenza, abbiamo la sensazione di un’ingiustizia che sia stata compiuta nei nostri confronti. E per questo ci rifiutiamo d’accettarla, ci lamentiamo, contestiamo la situazione. Può anche accadere che le due contrastanti reazioni siano presenti contemporaneamente: ad un certo livello di coscienza, accettiamo con rassegnazione il dolore, ma in fondo al cuore nutriamo sentimenti di rifiuto e di ribellione.
Giobbe dunque, torturato fisicamente e moralmente, diviene un grido inquietante per i suoi amici e per Dio stesso: “perché, e perché un tale soffrire se sono innocente?”. I visitatori, persone sagge ed esperte della vita, credono di sapere: “Soffri perché hai peccato, perché in qualche modo sei colpevole!…”. Giobbe reagisce, sa d’essere innocente, o almeno di non meritare una tale devastazione nel corpo e nello spirito. E s’appella a Dio: “perché Dio non interviene? perché non risponde?”
Finalmente Dio si manifesta
Si ha in un primo momento l’impressione che Dio lasci da parte le domande che Giobbe gli aveva indirizzato, quasi disdegnasse le ragioni logiche della situazione di sofferenza. Eppure, Dio già sta rispondendo: difatti, in tal modo respinge l’accusa d’essere nemico dell’uomo e della creazione o di disinteressarsi di essi, quasi fosse un sadico Creatore che distrugge l’opera delle sue mani.
Inoltre, nella sua risposta Dio ricorda a Giobbe la giusta collocazione degli interlocutori: la creatura stia al suo posto, non pretendendo di farsi “creatore” a suo modo. Giobbe Ë in tal modo sollecitato a ricordare il dramma delle origini, che ebbe luogo da una simile pretesa.
I problemi di Giobbe, per il come sono posti, non possono trovare altra risposta da parte di Dio, perché i due interlocutori sono su due piani differenti. La possibilità di trovare un sentiero d’uscita da questa impasse, sta certamente nella umiltà da parte di Giobbe. Un’umiltà, tuttavia, che suppone la fede in quel superiore “piano” o livello dove è Dio, cioè la rivelazione. Finora Giobbe ha affrontato il tema in chiave di problema, mentre, portato dinanzi a Dio, ora si tratta del Mistero: il mistero del male nelle sue relazioni con Dio.
Già questa soluzione è insinuata nella risposta di Dio. Dio infatti, nel suo rispondere, gli ha mostrato come egli si prenda cura delle sue creature. È questo il primo intento di Dio quando gli parla della creazione: gli vuol far comprendere che gli è accanto, di lui si occupa anche ora che è nella situazione di sofferenza. L’uomo nel dolore appare come un bimbo che ha smarrito il contatto con i genitori, suoi abituali punti di riferimento. Ma Dio era là, vicino, anche se Giobbe non ne avvertiva la presenza.
E ora Giobbe lo comprende, e reagisce con grande stupore: “Finora ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono!” (42, 5). Parole che esprimono la ritrovata fiducia, una fede più matura e adulta. Che Dio stesso poi dichiari l’innocenza di Giobbe e qqualifichi ingiusta la posizione degli amici – “Non avete detto di me cose rette, come il mio servo Giobbe” (42, 8) – sta a significare innanzitutto che Dio ha accolto l’invocazione di Giobbe e si è schierato dalla sua parte; denuncia inoltre il loro comportamento verso Giobbe come privo di solidarietà e di carità compassionevole e operosa.
Si noterà come anche nel libro di Giobbe, è proprio all’interno d’una situazione di dolore e di miseria che si rivela un nuovo volto di Dio: Dio non è solo – né soprattutto – il garante della giustizia e della legge, dell’ordine morale, attento giudice della fedeltà all’alleanza e ai precetti etici. Dio è ben di più. E’ libertà e gratuità, imprevedibilità assoluta, trascendenza: è mistero. L’uomo non può mai pretendere di “con‑prenderlo” nelle maglie della sua logica, di mettervi su le mani possessive.
La soluzione del mistero del dolore in Giobbe sta nell’ incontro personale con Dio, in una rinnovata esperienza della presenza del Dio‑vivente, che difende il sofferente dalla presunzione umana e dalla rigidità oppressiva di un’immagine standardizzata di Dio. In tal modo l’uomo viene liberato dalla paura, dall’angoscia del domani, dall’ansia del futuro. Gesù ritornerà su questo tema della premura appassionata e costante di Dio per la sua creatura: se il Padre – dirà – non permette che vada perduto neppure un capello della vostra testa (Mt 10,30), come potete pensare che vi lasci soli e indifesi nelle prove della vita? La sofferenza diviene l’occasione per l’affermazione della presenza di Dio costante, universale e provvida, anche se ciò non avviene nelle modalità che forse l’uomo si attenderebbe. Dio è sempre con noi, anche – e soprattutto – nei momenti bui e dolorosi della vita. All’uomo è chiesto non solo di fidarsi di Dio, ma anche del suo modo di essere e di agire nei nostri confronti. Eppure, “il libro di Giobbe non è l’ultima parola della Rivelazione su questo tema. In un certo senso, è un annuncio della passione di Cristo” (SD 11).
- IL DIO DI GESÙ CRISTO: “UNO DI NOI”
Chi ama davvero una persona e la vede soffrire o morire, vorrebbe sostituirsi a lei, vorrebbe patire e morire al suo posto. La Bibbia ci testimonia l’amore folle del re Davide per la morte del figlio: “Figlio mio! Assalonne, figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io al tuo posto!” (2 Sm 19, 1).
Il Nuovo Testamento ritorna su quel grido d’un cuore paterno. Ora però si tratta dell’amore di Dio per l’uomo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16: SD 14). Nel Figlio crocifisso Dio ha fatto proprio quanto della condizione umana sembrava più lontano da Dio: la sofferenza e la morte. Anche Gesù, come i tanti “Giobbe” prima e dopo di lui, ripete il “perché?” d’un tale patire e morire. E lui, di certo, è l’Innocente, del peccato è vittima e non cessa d’amare e perdonare anche mentre lo inchiodano al legno. Quello che era l’interrogativo più acuto e doloroso dell’uomo è diventato la domanda di Dio stesso, e ora risuona all’interno della vita divina: nulla ormai di quanto accade all’uomo è estraneo a Dio.
L’uomo dunque adesso fa esperienza di questa partecipazione di Dio al suo dolore. Non si tratta solo d’un avvicinarsi di Dio o di un suo essere accanto. Egli è presenza interiore, presenza amante e silenziosa, che condivide la situazione dolorosa. Nel Cristo sofferente ci viene svelato fino a che punto Dio sia amore, e amore “per noi”, per liberarci dalla condizione di mortalità e di peccato. Le piaghe del Crocifisso rimarranno impresse sul suo corpo al di là della risurrezione quale sigillo espressivo d’un tale amore.
Gesù portatore di gioia e “uomo dei dolori”
Ma intanto è singolare il fatto che gli scritti del Nuovo Testamento ci presentino Gesù come colui che è allo stesso tempo il portatore della gioia, l’amico capace di consolare (“Venite a me voi tutti che siete…”, Mt 11,28) e di liberare da ogni male, e l’ “uomo dei dolori”, colui che “deve molto patire…” (Mc 8,31). La manifestazione di questo duplice volto del Signore segue un andamento progressivo: prima Gesù è portatore di gioia e di liberazione, poi diviene il servo umiliato e percosso, l’ uomo dei dolori. Alla conclusione della sua vita, tuttavia, quei due volti si compongono nel Cristo-risorto: “il Crocifisso è il Risorto!”, come a dire che proprio colui che era descritto come “l’uomo dei dolori”, è ora il Vivente e fonte di vita e di gioia per tutti: è questo l’annuncio pasquale. L’ultima parola non appartiene dunque al dolore e alla morte, bensì alla gioia e alla vita.
C’è dunque una profonda unità tra i due aspetti della vita di Gesù, nel periodo della sua attività apostolica e in quello della sua passione. L’unità è mantenuta dall’aver egli considerato la sua vita come missione ricevuta dal Padre perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Tutte le circostanze della vita, liete o tristi, sono da lui vissute come opportunità per attuare quella missione.
Uomo di gioia
L’inizio della vita pubblica di Gesù, che si svolse nella ridente regione della Galilea, viene detta da alcuni esegeti la “primavera galilaica”. La parola del giovane Maestro suscitava ammirazione per la freschezza dei contenuti e la forza di convincimento. D’altra parte, la premura che dimostrava per i bisognosi attirava, irresistibile, le folle.
In effetti, i vangeli ci testimoniano che quando Gesù compare sulla scena del mondo, con lui appare “la vita” (Gv 1,4). I testi narrativi dei sinottici testimoniano di quest’ondata di vita che passa sulla terra di Palestina: alle folle “stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36), cariche da ogni genere di malanni, “tormentate da varie malattie e dolori, indemoniati epilettici e paralitici” (Mt 4,24), indirizza parole autorevoli e illuminanti, e pone gesti che risanano, guariscono, riconciliano. La sua calda umanità si esprime nei sentimenti di compassione che accompagnano tutto il suo operare. In questo atteggiamento Gesù rivela la sua partecipazione al male altrui, lo sente come proprio. Di qui la personale sofferenza di Gesù stesso di fronte ai malati, come è interpretato dal versetto redazionale del vangelo di Matteo: “Ha preso su di sé le nostre infermità, si è caricato delle nostre malattie” (8,17). Stando ai testi evangelici, insomma, Gesù ha considerato la sua vita come rivolta in maniera privilegiata ai sofferenti, a coloro che gemono sotto il peso del dolore causato dalle cause più svariate e che assume una straordinaria molteplicità di forme, fino a quella riassuntiva della morte e del peccato.
In quel sentimento di compassione di Gesù, è da vedere il segno della partecipazione di Dio stesso alla sofferenza dell’uomo. Dio non rimane assente o indifferente dinanzi all’angoscia che preme il cuore dell’uomo, ma, nel Figlio incarnato, la fa propria. È l’inizio di quel “prendere su di sé” la condizione umana nella sua concretezza storica, che condurrà il Figlio non più solo “di fronte” alla sofferenza, ma “in” essa, nell’esperienza personalissima del dolore.
“Uomo dei dolori”
Se infatti la prima parte dei vangeli ci narra dell’inizio gioioso e colmo di promesse che accompagnano l’apparire di Gesù sulla scena della vita, ben presto l’orizzonte si oscura. La sua vita comincia ad esser ritmata da minacce e propositi di morte da parte degli avversari (Mc 3, 6. 22). Atteggiamenti ostili vanno maturando nei suoi confronti. C’è chi lo ritiene “un mangione e un beone”. Il sospetto, l’incomprensione, l’indifferenza verso di lui divengono sempre più palesi, e tendono all’emarginazione e all’isolamento. Infine, è lui stesso che parla d’una misteriosa “necessità” di dover “molto patire” e che presto invaderà la sua esistenza.
Tutto questo patire corre verso quella che da lui è chiamata “la mia ora”, e sono le ore angosciose del Getsemani e del Golgota. In una narrazione sobria e che non indulge a stati emotivi, vi si parla d’una “tristezza” che è un “esser triste fino a morirne”, di un “cadere bocconi a terra”, d’uno stato di “abbattimento” e di “stordimento”, come un “esser fuori di sé” perché si è preda d’un presentimento terrificante. Gesù è preso dalla “paura”, è invaso da un’angoscia che produce una sudorazione di sangue e di acqua. Il triplice andare e venire, la ripetizione delle brevissima intensa invocazione al Padre che tuttavia tace, la ricerca di consolazione presso i discepoli e l’assenza di questi, sono tutti elementi che sottolineano la solitudine estrema, il fallimento del suo voto profondo di comunione e della stessa sua missione. Ora la volontà del Padre gli appare veramente incomprensibile. Nessuna spiegazione è possibile, non c’è alcun senso in tutto questo. Rimane solo la sua sottomissione fiduciosa e obbediente.
In tal modo, all’esperienza di sofferenza della notte della morte imminente, si aggiunge la sofferenza derivante dalla notte della fede, il silenzio di Dio. La piena adesione alla volontà del Padre espressa da Gesù, non comporta una rivelazione di Dio. Questo silenzio di Dio, raggiungerà il culmine sul Golgota. Il punto culminante infatti della sofferenza di Cristo si ha nel sentimento di abbandono da parte del Padre espresso nel grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Mc 15,34).
Gesù non ha di certo patito tutte le sofferenze di ordine materiale, fisico, organico e psicologico che soffrono gli uomini. Ha tuttavia sofferto il centro o il punto comune di tutte le sofferenze, e cioè il sentimento d’ingiustizia, di assurdità, di abbandono, di solitudine estrema, del sentirsi “gettato via” dall’esistenza, dalla vita. E’ stato svuotato di quelle che sono le nostre “evidenze spontanee” come credenti, ossia che “l’uomo, in fondo, malgrado il peccato, è buono, e che Dio è sempre al nostro fianco pronto a soccorrerci”.
Come ha sofferto Gesù?
I vangeli, dunque, non ci presentano un Gesù “campione” della sofferenza, che l’affronta con animo eroico, forte della consapevolezza d’una energia straordinaria. Di fronte alla sofferenza, Gesù reagisce come in genere reagiamo noi: non ha cercato la sofferenza, come lo testimonia un testo del vangelo di Giovanni: “Gesù percorreva la Galilea; non voleva infatti andare nella Giudea perché i Giudei cercavano di ucciderlo…..Poi salì anche lui (a Gerusalemme), non manifestamente, come di nascosto” (Gv 7,1.10). Quando però si rende conto che la sofferenza è ineluttabile, vi si decide con forza (Lc 9,51), ma poi vi reagisce in maniera pienamente umana: al Gethsemani non ha che un solo desiderio, che la sofferenza s’allontani: Padre, se è possibile, allontana da me questo calice, però si compia non la mia, ma al tua volontà!”. E cerca sollievo presso gli altri: “vegliate con me” e presso Dio nella preghiera.
Il “come” Gesù abbia sofferto, ci è chiarito soprattutto dalle sette parole che gli evangelisti attribuiscono nelle ore di agonia sulla croce. Sono espressioni preziose, da meditare incessantemente per vivere in maniera cristiana le nostre ore di dolore. Quelle parole hanno due obiettivi: svelare il senso della morte di Gesù nel disegno di Dio, e rivelare la maniera con cui Gesù stesso ha vissuto quest’evento nella sua coscienza di uomo e nella sua relazione con Dio.
Sono innanzitutto parole di verità: dicono senza ritegni la sua verità di un “uomo” che grida e lamenta una condizione di dolore assurda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” E poi l’intensa invocazione: “Ho sete!”, gridata da lui che aveva affermato d’essere “sorgente d’acqua viva”: Gesù non nasconde la verità della sua povertà umana, il bisogno che ha degli altri, il desiderio profondo di vivere e adempiere la missione della sua vita.
Parole di perdono e di accoglienza: “Padre, perdonali, perché non sanno quel che fanno” – dove cerca addirittura di scusare la loro colpevolezza. Al malfattore che lo aveva pregato, dice: “Oggi sarai con me…”. Agli uni e all’altro, Gesù apre ancora un avvenire, li apre alla speranza.
E alla speranza e al futuro apre anche la madre Maria e il discepolo Giovanni: “Donna ecco tuo figlio…, figlio ecco tua madre…”, senza rimanere chiuso entro il proprio dolore.
Una grande parola di fiducia ci trasmette Luca, colta sul momento di morire: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!” Ed è ancora una parola di speranza che l’evangelista Giovanni ci consegna: “Tutto è compiuto!”. Quale cammino di trasformazione profonda ha percorso Gesù nelle ore della sua passione: muore nella consapevolezza di aver manifestato fino in fondo l’amore salvifico di Dio, sì che ora se ne potranno raccogliere i frutti.
Anche la sua morte, dunque, non ha nulla di eroico, vi traspare una calda umanità. Vi grida la sua povertà, vi manifesta la sua fede e la sua speranza. Eppure è proprio in quel momento che il centurione romano si apre alla fede: “Veramente costui è il Figlio di Dio!” (Mc 15,39). Gesù, insomma, ha vissuto “fino in fondo” la sua umanità, la verità del suo “essere uomo”, e proprio per questo manifesta la sua divinità, rivelando allo stesso tempo la verità di Dio suo Padre. Appunto quando non ci si nasconde dietro false apparenze e si cerca invece di costruire dolorosamente la lotta per la speranza, Dio ci si manifesta. E’ straordinaria la lezione del centurione tramandataci dal vangelo: proprio quando non ci sarebbe più alcun motivo per credere, egli decide di porre il suo atto di fede.
E tuttavia, il significato definitivo della sofferenza di Gesù appare in maniera compiuta solo nell’evento della risurrezione. Questa è la “risposta” ultima del Padre al grido del Figlio, che dà senso e compimento al suo atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza amorosa. In tal modo, la risurrezione non risulta una sorte di conferma esteriore alla sofferenza e alla morte. È piuttosto interna a quella sofferenza e morte. Ne è il frutto, l’espressione gloriosa.
Come dunque Gesù non ha dato una spiegazione alla sofferenza, così neppure l’ ha eliminata. L’ha piuttosto svuotata della sua assurdità, del suo non-senso, e in tal modo l’ha svigorita: anche se rimane “ancora”, la sua radice velenosa è stata divelta, sicché è destinata a scomparire. E’ “già” vinta, anche se rimane tuttora. L’originalità di questa “risposta” sta nell’averla vissuta e attraversata personalmente “fino in fondo”. Sicché egli non ha vinto dolore e morte agendo come dall’esterno o dal di fuori, rimanendo estraneo alla condizione umana segnata da finitezza, vulnerabilità e mortalità: lo ha fatto vivendo quelle condizioni dall’interno, in un atteggiamento di autoconsegna fiduciosa, di autodonazione. Restando fedele fino alla fine, Gesù è stato trasformato dalla sofferenza: la sofferenza lo ha trasformato radicalmente (Eb 5, 7-10).
In tal modo, con lui un seme divino è entrato nel cuore del mondo, il dolore dell’altro è divenuto il suo proprio dolore. L’altro, si potrebbe dire, che è stato espropriato del suo fardello di cui s’è caricato Cristo, che ora lo porta insieme con lui. Quell’evento ha trasformato il senso della sofferenza e della morte dell’uomo, che ora sono divenute “cammino alla gloria”.
Ora la sofferenza e la morte di ogni uomo hanno un senso, a condizione d’essere inserite nel Cristo: non che la sofferenza e la morte abbiano un valore in se stesse! Il loro valore proviene dalla fedeltà, dall’amore obbediente. Anche la risurrezione del cristiano, non è il puro ritorno all’esistenza. È invece il termine di quel processo di trasfigurazione che viene descritto come “gemito del parto” (Rm 8, 22; Gv 16, 21), ossia la ridonazione della vita attraverso un processo di morte e di vita, di un vivere e di un morire che sono stati attraversati dagli atteggiamenti di fedeltà e di autodedizione.
- “LA SOFFERENZA UMANA È STATA REDENTA” (SD 19)
Quale senso ha dunque ora la sofferenza dell’uomo dopo che il Figlio di Dio incarnato l’ha vissuta personalmente? Quali atteggiamenti deve maturare di fronte ad essa il discepolo di Cristo?
Sostanzialmente sono due gli atteggiamenti che il cristiano, seguendo l’esempio del suo Signore, deve maturare dinanzi alla sofferenza: amore radicale per il prossimo sofferente, che diviene umile servizio per combattere il dolore o per alleviarlo, impegno per venire incontro in ogni modo a chi è colpito dalla sventura. Per questo la comunità dei discepoli di Cristo deve qualificarsi come comunità sanante. L’altra maniera di confrontarsi con il dolore, sta nella riconciliazione con i propri limiti e con le proprie sofferenze, anche con la morte. Qui la comunità di Cristo si manifesta come comunità sanata dall’amore di abnegazione del Crocifisso, e a quell’amore ora desidera essere associata.
Una parola di chiarificazione di queste due modalità di partecipazione all’atteggiamento che Gesù ha assunto dinanzi al soffrire, può contenere le seguenti osservazioni.
La comunità cristiana: comunità “ sanante”
Gesù non è rimasto “di marmo” dinanzi alla sofferenza e alla morte degli uomini e delle donne del suo tempo. Ha pianto la morte dell’amico Lazzaro, ha provato compassione alla vista di una madre che aveva perduto l’unico figlio, ha avuto pietà della folla smarrita. Quando gli fu chiesta quale fosse l’origine della sofferenza, non si perdette in astratte teorie, né vide un rapporto quasi di causa ed effetto tra colpa e sventura (Gv 9,3): la sofferenza non è un castigo di Dio!
Piuttosto, s’impegnò con tenacia nella cura e nella guarigione di malattie, investì le sue risorse per aprire alla speranza, alla fiducia, per abbattere le barriere che provocano emarginazione e isolamento, per liberare dagli spiriti malvagi, per redimere la stessa legge divina dalle incrostazioni umane che la rendevano odiosa e dura da praticare.
Ai suoi discepoli ordinò che continuassero a impegnarsi come lui contro ogni forma di male che offende l’uomo. Ad essi chiese di maturare atteggiamenti di solidarietà e di partecipazione, di stabilire un’alleanza con i sofferenti e i bisognosi per sconfiggere le cause di ogni forma del male. Maria e le donne ai piedi della Croce, sono l’immagine della Chiesa dei “piccoli” e dei semplici che non “fuggono” (Mc 14,50) nel momento doloroso, ma entrano nel mistero del dolore e vi rimangono in atteggiamento di una partecipazione contemplativa (Gv 19,25; Mc 15,41).
Per questo già la prima comunità dei credenti considerò suo compito specifico farsi carico dei malati, dei sofferenti, attuando con realismo il mandato del suo Signore non solo di “evangelizzare”, ma anche di “curare gli infermi” (Lc 9,2). La parabola del “Buon Samaritano” (Lc 10, 29-37) si conclude in maniera perentoria: “Va’ e anche tu fa lo stesso”. La comunità di Gesù dunque deve quotidianamente “convertirsi” a questo atteggiamento di premura e di servizio dei bisognosi. Né può delegare ad alcuni soltanto l’esercizio di tale ministero. Una chiesa non attenta ai piccoli, ai poveri, ai malati, ai sofferenti non è comunità di Cristo. Non si tratta d’un atteggiamento spontaneo o naturale: richiede volontà e formazione. Nel commento alla parabola del buon Samaritano proposto nella lettera apostolica “Salvifici doloris”(nn.28-29), Giovanni Paolo II sottolinea il “fermarsi”, il “commuoversi”, il “coinvolgimento”. Il che significa disponibilità e apertura del proprio essere, disposizione del cuore, sensibilità e commozione, azione concreta, capacità di coinvolgere altri e di agire comunitariamente, impegno delle proprie risorse fatto in maniera continuata ed efficace.
L’istituzione dell’Eucarestia chiarisce fino in fondo questo dinamismo. Quando Gesù ordina alla sua comunità : “fate questo in memoria di me”, chiede non solo che venga ricordato e ripetuto il rito che egli ha celebrato, ma anche che venga tradotto sul piano esistenziale quel “dono di sé” significato nella frazione del pane e nella condivisione del calice. Ciò richiede una “conversione”, che è un accogliere in se stessi il Cristo e il suo atteggiamento di autodedizione. Nasce allora la riconciliazione con se stessi e con il prossimo, con la comunità cristiana e con la società nel suo insieme, che è riconciliazione anche con i limiti, le paure, le sofferenze, la morte e il morire, e le presunzioni che ci portiamo dentro. Non ci si può cristianamente porre al servizio del prossimo sofferente se non si è disposti a “perdere se stessi” “per amore” di altri. E’ la legge del “chicco di frumento” (Gv 12,24-25) che deve “morire” per poter sbocciare nella spiga matura e così far vivere o guarire l’altro. Tale infatti è la vita: un dinamismo che lo si riceve nella gratitudine e lo restituisce nella responsabilità. Là dove questo circuito s’arresta, la vita ristagna e muore.
“Sofferenza redenta”: comunità sanata
Che senso può acquistare il nostro soffrire quando è inevitabile e permane? In tali circostanze, non pare che sia sensato ricercarne la causa, affannarsi dietro la domanda: “perché mi accade questo?”. Piuttosto è da chiedersi: “Come posso vivere questa situazione? Come posso viverla in maniera umana e significativa, in maniera cristiana, da discepolo di Gesù? Quale tipo di fede e di fiducia può animarmi in queste condizioni? Quale amore posso esprimere?”
Questo non vuol dire che tanti patimenti non siano causati dalla nostra o altrui responsabilità. Se tuttavia il male rimane e si rivela inevitabile, la ricerca d’un senso, d’una direzione può risultare più utile che non accanirsi nella ricerca d’un colpevole. E’, questa, guarigione interiore, che nasce dall’aver individuato un senso anche nelle condizioni di malattia e di dolore, perché ha ridimensionato il valore della stessa salute, orientandola nella direzione della salvezza, la riuscita, ossia globale e definitiva della vita. La sofferenza infatti può offrire l’opportunità per aprire la persona umana ad altre potenzialità da sviluppare e attuare, e che rimanevano disattese. Ci sono infatti delle esperienze di per sé tristi che, se vissute come sfida e provocazione, aprono gli occhi su nuove prospettive della vita.
Altre volte il dolore può divenire una necessaria purificazione da comportamenti errati o disorientanti, come anche può svolgere un ruolo educativo per “ricostruire il bene nello stesso soggetto sofferente” (SD 12). Si tratta di un’esperienza universale, nella prospettiva evangelica però l’accento è posto sul rapporto personale con Dio: la sofferenza può giocare questo ruolo. In essa Dio si manifesta come Padre che cerca un rapporto più stretto, più personale con la sua creatura. Attraverso la sofferenza Dio purifica l’uomo, lo trasforma, lo penetra della sua santità per introdurlo nell’intimo della sua vita divina. Tale è il cammino dell’uomo: soffrendo, impara l’obbedienza che lo unisce a Dio.
Non sempre, però, questo accade, né sempre può accadere: ci sono certi dolori carichi d’un tale potere devastante dinanzi ai quali la mente si perde, né il cuore riesce più a sostenere. Dolori effettivamente eccedenti la giusta misura sopportabile da parte d’un uomo. Lo stesso è da dire per il dolore innocente, il dolore dei bambini, di certe forme di handicap mentali o fisici. In tali circostanze non è più bastevole – né sempre le condizioni psichiche e fisiologiche lo consentono – neppure chiedersi “come vivere tale situazione, in quale maniera umana e cristiana”: l’unico spiraglio che rimane, può forse essere intravisto nella domanda: “con chi è possibile vivere in tali condizioni?”. Emerge tutta l’importanza degli altri, della comunità familiare e sociale, della comunità cristiana. Si afferma il valore della solidarietà, della partecipazione e della prossimità, della compassione autentica, che nasce da puro amore.
L’esistenza del discepolo di Gesù è un ”essere-in-Cristo”, “vivere-in-Cristo”
In questa testimonianza di partecipazione e di amore, la persona sofferente intravede il mistero della prossimità, della partecipazione, della compassione amorosa di Dio (2 Co 1,3-7). Si è così rimandati al mistero della Sua presenza nell’uomo sofferente (Mt 25,40: “l’avete fatto a me”). Poiché se la vita del cristiano è un “vivere-con-Cristo” o un “essere-in-Cristo”, oppure è “Cristo-che-vive-in-me”, ciò vale in maniera singolare quando si è più somiglianti a Lui crocifisso, perché fu in quelle condizione che Egli poté gridare: “Tutto è compiuto!”, avendo egli stesso raggiunto il “compimento” della sua incarnazione e della sua missione in quelle circostanze. L’apostolo Paolo era talmente persuaso di tale verità da tradurre l’esperienza del suo vivere come un “vivere a due”: “Sono stato crocifisso con Cristo. Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me. Questa vita che vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2,20).
La condizione di sofferenza diviene allora una cattedra straordinariamente efficace, poiché vi risuonano le scarne essenziali “parole vissute” dell’eloquenza del Crocifisso. Il malato infatti ricorda la nostra creaturale finitudine e limitatezza, il nostro non-appartenerci per essere proprietà sua, di Cristo, di Dio, da Lui dipendenti e a Lui finalizzati. La persona malata esprime anche la nostra dipendenza reciproca, il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. Ci fa anzi scoprire quanto dobbiamo noi stessi agli altri, quanto la nostra stessa realizzazione dipenda dagli altri, nel senso che sono gli altri a far emergere le nostre potenzialità e poterle affermare: “L’uomo non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé”. Anzi, “quell’amore disinteressato che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l’uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza”.
Nella sua povertà, infine, il malato aiuta a comprendere il valore della persona umana in se stessa, del suo puro e semplice essere, a prescindere dalle doti, dal ruolo, dalla posizione che occupa nella famiglia, nella società o nella Chiesa stessa: va rispettata, servita, amata in qualsiasi condizione si trovi, prima di tutto e semplicemente perché è persona umana, figlio/a di Dio, creato a sua immagine.
Non è certo facile cogliere la presenza di Cristo in qualsiasi persona che soffre; e ancora più arduo è farsi persuasi della presenza del Cristo sofferente in se stessi quando si è personalmente immersi nel dolore. Qui pure è da dire che solo la fede sovviene. Una fede che richiede un cammino, a volte lungo e faticoso, frutto della grazia, ma anche dell’esercizio costante del soggetto umano e dell’accompagnamento della comunità. Occorre allora essere attenti e disponibili all’azione interiore dello Spirito Santo: poiché come Cristo “con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9,14), così il suo discepolo che è nella sofferenza è abitato dalle primizie dello Spirito” che “viene in aiuto alla nostra debolezza” e “intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili” (Rm 8,23.26).
Per cui è necessario esercitarsi in questo atteggiamento di fede e ad esso educarci, allo stesso modo con cui siamo stati educati, ad esempio, a riconoscere nell’Eucarestia la presenza reale di Gesù Cristo. In questo movimento di assimilazione del mistero pasquale di Cristo, la sofferenza è vinta dall’interno, e quel senso di assurdità che tante volte riveste, viene superato proprio attraversandola, vivendola fino in fondo, come ha fatto Gesù, anzi vivendola insieme con lui, perché di fatto è Lui che la vive in noi.
Concludendo, la vita cristiana è “passaggio” attraverso la morte e la risurrezione di Cristo. Come Gesù nell’attuazione della sua missione ha privilegiato i piccoli, i poveri, gli esclusi, gli handicappati, i sofferenti, così dobbiamo agire noi, che siamo i suoi discepoli, la sua comunità, la sua Chiesa. Ciò va fatto non solo “facendo memoria” di quanto ha compiuto il Signore, ma anche stabilendo una relazione e un’azione diretta con coloro che sono nel dolore: è questo il motivo che rende particolarmente significativa – e preziosa – la presenza dei sofferenti nella vita della Chiesa.
E quando si è personalmente presi dalla sofferenza, né questa può essere rimossa e vi sono sufficienti motivi per ritenere che è Dio che vuole assimilarci al Cristo sofferente, occorre vivere questa condizione nella fede che Gesù stesso vive e soffre “con” noi e “in” noi: egli fa suo il nostro patire, che viene in tal modo trasformato in amore redentivo, per noi e per la sua Chiesa, per l’umanità intera, oggetto dell’amore del Padre.